Zie della Dea
Ahmedabad, stato del Gujarat. A metà strada tra il Pakistan e il mare, adagiata sulle due sponde del fiume Sabarmati, sorge quella che nell'immaginario comune è la città di Gandhi, delle religioni che si incontrano e si scontrano (nel 2002 i disordini tra hindu e musulmani causarono migliaia di morti e feriti), e del proibizionismo, un' oasi alcohol-free dove moschee, ashram e ristoranti di lusso creano un panorama che stordisce e ammalia. Fondata da un sultano visionario nel XV secolo, e a lungo rimasta capitale dello stato, è proprio Ahmedabad il quartier generale da cui Narendra Modi, il chief minister iper- conservatore, guida la sua campagna elettorale per le elezioni in corso che lo vedono favorito.
Quello che cerchiamo però non sono le suggestioni del passato o i retroscena della fervente scena politica, né tantomeno le proverbiali prelibatezze della cucina locale (il cibo del Gujarat è dolce: dolci le verdure, dolci le salse, dolcissimi i dolci). Siamo sulle tracce delle hijra, gli eunuchi sacri che popolano quest'angolo di mondo come sirene uscite dai libri di mitologia: uomini che volontariamente scelgono di essere castrati con un rituale segreto, e che dedicano la propria vita al servizio della divinità. A un centinaio di chilometri da Ahmedabad si trova infatti il tempio di Bahuchara Mata, la “Madre Vagabonda”, una dea benevola che si dice cavalchi un gallo, e che è la divinità protettrice delle hijra.
La nostra ricerca è un azzardo: sappiamo sì che ad Ahmedabad gli eunuchi ci devono essere, ma scovarli in una metropoli da quattro milioni di abitanti non è affatto così scontato. Battiamo il mercato di Tin Darwaja (“Tre porte”) avanti e indietro: la folla è così compatta da togliere il fiato, e le bancarelle e i negozi traboccano di merci di ogni tipo: succo di canna da zucchero, dvd piratati, frutta secca, cerniere, pastiglie ayurvediche. Ma è proprio in mercati affollati e caotici come questi che le hijra vengono a elemosinare le loro prebende. Chiediamo a mercanti e bottegai, concentrandoci sugli hindu, qui in minoranza, e proviamo a distinguere quelli che sulla cassa o sulle insegne espongono
immaginette sacre, tra cui quelle di Bahuchara Mata. Delle hijra però nessuna traccia: tutti sanno quello che cerchiamo, ma nessuno sa dove trovarlo. Le nostre continue domande e l'aria di chi non sta cercando souvenir iniziano a destare sospetti, ed è proprio quello che vogliamo: attorno a noi si affollano i tassisti, e finalmente uno più giovane degli altri ci prende da parte e ci dice che lui sì, può condurci da una hijra che vive a poco lontano.
Irfaan, questo il nome del ragazzo, ci fa salire sul suo rickshaw, e insieme a noi sale un altro ragazzotto suo amico, che passerà il viaggio a ridacchiare chiedendoci in continuazione se sia sesso gay quello di cui andiamo cercando. Non gli diamo troppa corda, in questi casi è la strategia migliore, e rimaniamo in silenzio incrociando le dita. Imbocchiamo un vicolo buio e fresco, su cui si affacciano tante piccole porticine. Una di queste è rialzata rispetto al manto stradale, ed è proprio da qui che si affaccia Mina, una hijra dall'aspetto statuario e dal contegno austero. L'impressione, nella penombra della casa, è spiazzante: è altissima, e i lineamenti sono quelli di un uomo, ma la sari che indossa le ricade sul corpo con una naturalezza e un'eleganza estrema, creando in noi una strana confusione. Dietro di lei un gattino rosso fa le fusa, e lei lo prende in braccio e lo stringe a sé mentre noi ci presentiamo. L'improvvisata non le ha fatto piacere, e di sicuro non le fanno piacere Irfaan e il suo compare che sghignazzano stolidamente. Le nostre scuse non servono a nulla, e non serve a nulla spiegare le nostre buone intenzioni: Mina ha appena perso un parente, e le regole del lutto le impediscono di parlare con uomini. Ce ne andiamo sconsolati. L'incontro è stato un fallimento, ma una visione così straordinaria non può che spronarci a continuare.
I giorni successivi la voce si è sparsa nel mercato, e finalmente abbiamo un indizio sicuro: a Manek Chowk, un incrocio appartato poco oltre la zona di Tin Darwaja, un gruppetto di hijra è solito trovarsi tutte le mattine per colazione davanti ad un negozio di dolci. Ci fiondiamo lì. Ma è tardi, “Erano qui fino a poco fa, ma adesso sono già partite per le commissioni mattutine. Arrivano tutti i giorni alle 8 e rimangono fino alle 10”, ci spiega un venditore di paan dal tono perentorio. Parliamo con i negozianti della via, e proviamo a capire di più sulle loro abitudini. Il pasticcere, un omone canuto con l'aria paciosa, ci spiega: “Noi le conosciamo bene, questa zona è loro, e nessun altro eunuco si può avvicinare. Le hijra si dividono la città per zone e se ne vanno di bottega in bottega a impartire benedizioni e chiedere l'elemosina”. È sempre lui ad avvertirci: “Quando le incontrate, non chiamatele hijra! Loro sono le Masi, le “zie”, ed è così che bisogna chiamarle!”. Il ragionamento non fa una piega, “zia”, o “mamma” sono i titoli onorifici che in India è buona creanza usare con una donna più anziana, e che magari gode di una certa autorità.
L'alba è l'unico momento di requie dal caos, dalla polvere, dal caldo. E soprattutto dal traffico. I clacson, che dalla mattina alle prime ore della notte perforano i timpani,
tacciono miracolosamente, e sembra un miracolo anche restare illesi attraversando la strada, lo sport estremo più praticato ad Ahmedabad. Alle 8 in punto siamo a Manek Chowk: ovviamente nessuna si presenta fino alle 11...Gironzoliamo lì intorno, bevendo un chay dopo l'altro insieme ai negozianti della via, che ormai ci riconoscono. I minuti passano tra l'aspettativa e l'emozione, finché Pathak Sahab, un uomo di mezza età che nei giorni precedenti si era dimostrato interessato alle nostre ricerche ci viene a chiamare mentre temporeggiamo davanti a un negozio di arredi sacri: un rickshaw si è appena fermato lì avanti, e seduta sul sedile posteriore c'è Rekha Masi, una hijra avanti con gli anni, possente, autorevole, con un doppio mento imperiale e i denti rossi di paan. Le tocchiamo le ginocchia in segno di rispetto, come fanno i nipotini con le nonne, e lei ricambia posandoci una mano sulla testa in segno di benedizione. Iniziamo a chiacchierare, e Rekha risponde paziente e orgogliosa alle nostre domande sulla funzione sacra degli eunuchi. Ci racconta di come loro non siano né uomini né donne, e di come, nonostante vivano seguendo i precetti dell'induismo, alcuni loro rituali sono tipicamente islamici, eredità del loro ruolo fondamentale alla corte dei sultani mughal. Mentre attorno a noi si crea il solito gruppetto di curiosi, che salutano Rekha e le porgono qualche banconota, Pathak Sahab utilizza un'immagine illuminante per descrivere il rispetto di cui godono gli eunuchi in quel quartiere: “Vedete, noi siamo tutti bambini delle hijra”. Rekha è di fretta, ha delle commissioni da svolgere, ma ci rassicura che poco dopo arriveranno altri eunuchi, e infatti ecco da un altro risciò scendere Bijli Masi, una hijra giovane, molto timida e dagli occhi sfuggenti, seguita poco dopo da Ladli, pelle ambrata e sguardo malizioso. È lei la più spigliata ed espansiva, ed quella che si comporta con noi ragazzi in maniera più civettuola. Spieghiamo loro che anche in occidente esistono “zie”, ma che la loro vita è ben diversa dalla loro. Ladli lo sa bene, e mi sussurra nell'orecchio che sa che dalle nostre parti molto spesso fanno “dhanda”, si prostituiscono....Le zie di Manek Chowk sono tutte di una gentilezza deliziosa, e mentre intorno a noi si allarga il capannello di curiosi e devoti, che riempiono le hijra di banconote da 10 rupie, Bijli e Ladli ci versano il tè e ci rimpinzano di “saadhaa paan”, un involtino fatto di foglie di betel, noce di areca e tabacco da masticare, una bomba vagamente eccitante che ogni anno in Asia contribuisce ai 228.000 casi di cancro alla bocca. Le hijra però, come ogni zia premurosa che si rispetti, hanno un occhio di riguardo per noi: non ci offrono la calce, il complemento più dannoso (e più intossicante) di questo spuntino. Il clima è disteso, e la scena cattura inevitabilmente l'attenzione dei passanti. Siamo una compagnia ben assortita: una torma di travestiti scherzosi, un fotografo coperto di tatuaggi e un sanscritista che scambiano per un mezzo sangue: il gergo di strada appreso a Varanasi questa volta si è rivelato utile. Ci raccontiamo dei nostri viaggi, ci scattiamo foto col cellulare e ci facciamo raccontare cosa signif ichi essere hijra oggi, l'ambiguità di una figura rispettata negli ambienti più tradizionali, ma anche dileggiata e derisa, costretta a vivere ai margini della società ufficiale. “Tutto quello che esce dalla nostra bocca”, spiega Ladli, “è verità: per questo la gente, anche quando ci manca di rispetto, in fondo ci teme. Sanno che se li
maledicessimo quelle maledizioni si avvererebbero”. Ci scambiamo i numeri di telefono e rimaniamo d'accordo: proprio nei prossimi giorni è in programma una badhai, una cerimonia per la benedizione di una giovane sposa, e noi saremo gli ospiti d'onore. Un'occasione del genere non capita tutti i giorni, e il fatto che ci ritroviamo invitati a una cerimonia cui pochi occidentali hanno avuto occasione di assistere, ci riempie di entusiasmo e aspettative.
Prima della badhai però, la nostra tabella di marcia prevede una tappa imprescindibile: il tempio di Bahuchara Mata, il cuore del culto degli eunuchi. A guidarci lungo i cento chilometri che ci separano dal villaggio di Becharaji è Stephen, un allampanato oriundo di Goa, orgogliosamente cattolico, che prova in ogni modo a farci cambiare idea: le chiese di Ahmedabad sono sicuramente più interessanti di quei pagani travestiti...Fuori dal finestrino la campagna indiana: piatta, polverosa, infuocata.
Ai bordi delle strade i villaggi fatti di fango, i cammelli ondeggianti sotto i basti, le donne elegantissime, avvolte in sari di seta e ricoperte di gioielli sgargianti nonostante i pesanti cesti di materiale da costruzione che portano sulla testa.Il tempio, come tutti i grandi templi indiani, a prima vista somiglia più a una fiera che a un santuario: i padiglioni sovraccarichi di nastri e banderuole, le orde di pellegrini che bivaccano e si affollano alle bancarelle di souvenir, preti che distribuiscono zuccherini e collane di fiori ai fedeli. Per terra, noci di cocco spaccate, tributo innocuo alla dea, ma che un tempo lontano era costituito dai crani delle vittime dei sacrifici umani. I fedeli si accalcano intorno alla statua principale di Bahuchara, e non ce n'è uno che non si fermi a fissarci o farci domande (e scattare foto): di bianchi in questo tempio sperduto se ne vedono davvero pochi, e per arrivare fino a Becharaji abbiamo di certo un motivo speciale. Il motivo sono loro, sedute all'ombra di un grande albero al centro del cortile, coloratissime e sacrali: le hijra del tempio, un gruppo di una decina di eunuchi che vivono lì e non smettono un momento di ricevere le offerte dei fedeli, di dispensare consigli, di lanciare benedizioni alle coppie di genitori che porgono loro in braccio bambini che un giorno, benedetti dalle “bambine della dea” cresceranno sani e forti. In un'ala del santuario, sotto una tettoia, c'è una grossa cella, il Putreshana Bhawan, la “stanza dove si desiderano i bambini”: tutto intorno coppie di giovani sposi speranzosi, o di sposi meno giovani e più rassegnati, che dedicano statuette per propiziarsi la nascita di un figlio. Le statuette sono migliaia, tutte in fila, così come sono in fila le foto dei bambini nati grazie a quelle offerte ben accette...Mi tornano in mente certe scene della devozione italiana, le pareti ricoperte di ex voto di qualche frequentata chiesa del meridione.Qui come altrove, sono le hijra più giovani ad essere le più disponibili: anche la loroè una comunità gerarchica, e sono le chela (discepole) a darsi maggiormente da fare, mentre il guru (maestro) osserva e approva con aria tronfia e compiaciuta. Scherziamo con loro, e ci facciamo mostrare il tempio, la cella con la statua della dea e i diversi edifici del complesso templare. Tutto intorno i galli sacri, emblemi di Bahuchara, razzolano nei chiostri, inseguiti dai bambini che li prendono in braccio, e una giovanissima venditrice ambulante vende a due rupie acqua minerale in...sacchetti di plastica. Come in ogni luogo sacro dell'India, le scarpe vanno lasciate all'ingresso, e le hijra sono esilarate dal fatto che non riusciamo a stare fermi troppo tempo sulla pietra infuocata dal sole meridiano. In un'area più discosta del complesso c'è il “convento” dove le hijra vivono e dove viene eseguita la castrazione rituale, cerimonia segretissima cui solo le altre iniziate possono assistere.
“Essere hijra”, ci spiegano, “è come una vocazione, è la Dea che ti appare in sogno e ti chiama”. Alla comunità, cui appartengono piccoli nuclei sparsi in tutte le grandi città indiane, si uniscono ermafroditi, transgender, e tutti coloro che non riescono a trovare un ruolo e un'identità accettabili nella propria vita quotidiana. “C'è chi “prende i voti” in giovane età e chi lo fa da adulto. Per quanto riguarda i giovanissimi”, ci rassicurano, “chi dice che rapiamo i bambini e li castriamo a forza racconta solo bugie: che interesse ne avremmo?”. Dopo giorni di digiuno e meditazione, l'iniziato viene condotto davanti a un'immagine della Dea, sulla quale deve concentrarsi con devozione e abbandono. La Dea sorride: è il segnale del suo beneplacito. Senza anestesia, senza attrezzature mediche, una hijra più anziana, chiamata daaii maa, “levatrice”, fa calare con un colpo solo il coltello rituale, sancendo con un taglio netto l'abbandono della sua vecchia vita. Non si usano terapie, né disinfettanti, solo medicine naturali, nei circa quaranta giorni di degenza. È difficile capacitarsi di come gli iniziati non muoiano, di emorragia o di infezione, eppure tutte sostengono che il nirvan, questo il nome dell'operazione, non faccia più male di un pizzicotto...Sebbene un articolo del codice penale indiano proibisca espressamente la castrazione, si calcola che circa 50.000 hijra popolino l'India, e continuino a praticare il loro spaventoso tributo alla divinità.A due chilometri da Becharaji, nel villaggio di Sankhalpur, c'è un altro tempio della Dea, più recente e più pacchiano di quello principale: marmi lucidissimi, statue sgargianti raffiguranti episodi della mitologia hindu, e frotte di bambini per cui una visita al tempio è come un pomeriggio al luna park. Anche qui vive una piccola comunità di eunuchi, e due in particolare se ne stanno seduti sul muricciolo davanti all'ingresso del tempio, ad accogliere i fedeli. La più vecchia della due lancia periodicamente urli devozionali, “Maa, maa”, “Madre, madre”: invoca la Dea con una cantilena, e ricorda ai visitatori di lasciare un'offerta. Nello spiazzo antistante l'ingresso, a pochi metri da lei, un'altra mendicante, una donna malconcia e zoppa chiede la carità, e l'alternarsi dei suoi lamenti con quelli dell'eunuco da l'idea di una gara per la sopravvivenza. Non c'è bisogno di dirlo, la generosità è tutta per le hijra.
Il grande giorno della badhai è arrivato: siamo in fibrillazione. Il mio telefono squilla: “Ladli masi bol rahi hum” “sono la zia Ladli, allora oggi venite?” Ci fiondiamo in strada e montiamo sul primo rickshaw disponibile. La direzione è Thakkar Nagar, alla periferia est della città. L'appuntamento è all'incrocio principale del quartiere, e dal sedile del rickshaw scorgiamo Bijli, ritrosa e sfuggente come al solito. Ci sorride, è elegante in una sari azzurra trasparente: si vede che oggi è un giorno speciale. Le altre fanno capolino dalla finestra di un palazzetto discreto affacciato sulla strada, e ci dicono di aspettare: si stanno preparando. Mentre stiamo aspettando siamo braccati da una vicina di casa, evidentemente invidiosa dell'attenzione che due occidentali riservano ai dirimpettai, che ci porta in casa sua, ci offre l'ennesima tazza di tè, e ci presenta una dozzina di parenti.
Rischiamo di arrivare in ritardo, e mentre saliamo di corsa le scale sentiamo le hijra che dicono “ma dove sono andati?”. Il palcoscenico è incredibile: una stanza di pochi metri quadrati, quasi interamente ricoperta da un grosso letto, sul quale sono seduti Rekha Masi (che sembra essere particolarmente pigra...) e Raju, il suonatore di dholak, un ragazzo scurissimo di pelle e con lo sguardo perforante. Tutto intorno la famiglia della sposina, una ragazza piccola con gli occhi brillanti che sorride con il candore della bambina ormai diventata donna. Gli uomini di casa, proprietari di un negozio di elettronica, sono elettrizzati all'idea di avere ospiti stranieri alla festa della loro ragazza. L'unico assente è lo sposo: se in Italia non può vedere il vestito della sposa prima delle nozze, in India è la festa con gli eunuchi ad essergli preclusa...La musica comincia, e la stanza si riempie delle voci stridule delle “zie”, accompagnate dal ritmo assordante del tamburo. È Rekha a guidare i canti in sindhi, la lingua del gruppo etnico di cui fanno parte, e le altre riprendono i ritornelli in un responsorio giocoso. Bijli e Ladli si alternano nel ballo, una più modesta e discreta, l'altra più disinvolta e spregiudicata. Nei pochi metri quadrati liberi della stanza uomini e donne si uniscono alle danze, e sventolano attorno alle hijra decine di banconote che poi vanno a finire nel borsone di Rekha. Anche noi balliamo e diamo fondo alle nostre dieci rupie, sapendo che è una festa, e che bisogna godersela. Alla fine le ballerine sono esauste, ma giusto il tempo di bere un po' d'acqua dai bicchieri di alluminio, ed arriva il pezzo forte: Ladli si vela la testa, infila sotto la sari una palla di pezza, e assume una camminata ancheggiante e maldestra, tenendosi i fianchi: sta mimando una donna incinta. Con il coro di Rekha e Bijli attacca una nenia ripetitiva che ripercorre mese per mese le fatiche della gestazione, i dolori alle ossa, ai denti, le voglie dei cibi più strani. Le donne presenti alla cerimonia conoscono bene quello di cui parla, e si scambiano occhiate complici e incoraggianti con la giovane sposa. Finché al nono mese...“Jao babu”! Vai bimbo! E Ladli tira fuori dalla sottana il malloppo, che viene subito consegnato alla sposina. Tutto intorno i parenti gettano manciate di riso e si congratulano, mentre la ragazza lo tiene in braccio e lo culla con la stessa attenzione che riserverebbe a un bambino vero. La scena è di una delicatezza commovente. Ladli sussurra alla ragazza come comportarsi con il bambino di pezza, e le rivela alcuni rituali da compiere in segreto. I bambini di casa, seduti sul bordo del lettone, guardano con tanto d'occhi lo spettacoloche chissà quante altre volte rivivranno.
Spettacolo che sembra portarci su un altro pianeta, in un altro mondo.
O forse no, visto che qualcosa di molto simile, la “figliata dei femminielli”, veniva praticato a Napoli fino a qualche anno fa, e basterebbe leggere il romanzo La pelle di Curzio Malaparte, o guardare l'omonimo film di Liliana Cavani per rendersi conto dell'esatta corrispondenza tra i due rituali. Dopo le danze l'atmosfera è quella di un qualsiasi ritrovo di famiglia: entrano il tè, le papad (sfoglie salate fritte nell'olio di mostarda), e i gulab jamun, palline di latte e sciroppo di rosa. C'è ancora tempo di far festa e godersi il rinfresco, mentre Rekha discute con i padroni di casa sul prezzo dello spettacolo: “Quante sari? Quante rupie? Quanti chili di riso?”. È il loro lavoro, l'unico per cui siano riconosciute e rispettate. Rinunciando alla propria fertilità si fanno carico di quella altrui: è solo grazie alla loro benedizione che i matrimoni portano frutto, e questo gli abitanti di Ahmedabad lo sanno bene.
Basta camminare insieme a Ladli per le vie del quartiere per rendersi conto del ruolo degli eunuchi per la comunità locale. Mentre ci mostra orgogliosa tutte le case dove ha celebrato la badhai, non fa un passo senza che qualcuno la fermi per salutarla e che le si accalchino attorno bambini festanti. Si informa sulla nascita dei figli, e sulla salute di tutti. Poi, cosa che la rende più orgogliosa di tutte, ci porta nella sede locale della Shiv Sena, l'organizzazione iper-nazionalista di cui lei è sostenitrice. Qui le hijra votano a destra, il partito forte che difende le tradizioni, e se proprio in questi giorni la Corte Suprema ha concesso al “terzo sesso” riconoscimento formale e facilitazioni fiscali, le hijra di Ahmedabad sembrano più interessate ai buoni contatti, e soprattutto al partito che difende il loro ruolo tradizionale. Responsabile della sezione è Ashok Malani, un pezzo grosso della politica locale.
Ashok è un uomo volitivo, indossa una lunga kurta e ha la voce sicura di chi è abituato a fare politica. Alle pareti del suo ufficio sono appese foto che lo ritraggono insieme a Narendra Modi, ed altre in cui lui e le hijra posano per un'occasione ufficiale. Nel vicolo antistante un festone annuncia l'inaugurazione della nuova attrazione di quartiere, di cui lui è il principale promotore: una nuova macchina dell'acqua fresca che distribuirà acqua filtrata ai bambini in uscita da scuola. Fuori dall'ufficio, da un'edicola addossata al muro, ci guarda con aria protettiva Jhule Lal, il dio barbuto del popolo sindhi, che manda benedizioni seduto su un pesce.Prima di concludere la giornata abbiamo ancora un appuntamento importante: Bijli e Ladli ci tengono molto a farci conoscere le loro “sorelle” e tutta la loro bizzarra famiglia allargata, che vive in una casa a due piani a Sadaspur, un quartiere tranquillo non lontano da Thakkar Nagar. Il rickshaw ci lascia proprio davanti all'uscio, e l'effetto, più che di una casa, è quello di una voliera: una veranda circondata da un reticolato di metallo occupa tutta la facciata della casa, e il perimetro è percorso da carpay, le tradizionali brandine di corda intrecciata. Intorno, ognuna sul proprio lettino, se ne stanno appollaiate le hijra della famiglia, giovani, vecchie e vecchissime, a godersi un po' di corrente d'aria: c'è Shilpa, chesorride leziosa, e inforca degli occhialini d'oro per scriverci il loro indirizzo: “mi raccomando, dovete spedirci tutto quello che scrivete!”; Nargis, avvolta in una sari acquamarina che crea un contrasto fortissimo con la pelle scura e i capelli candidi; e Shobha, il guru di casa, con una pancia tonda e lo sguardo bonario, che non vede l'ora di provare una sigaretta di tabacco che rolliamo per lei.
Nell'angolo più lontano siede Chameli, la dadi guru, la “nonna” di tutte, con una kameez e un gilerino di quelli che indossano le vecchie nonne indiane. Bijli sostiene che abbia cento anni, e se del senso matematico degli indiani ho imparato a dubitare negli anni, gli occhi acquosi, la pelle rugosa e del colore del legno mi danno l'impressione degli alberi secolari, fermi, saggi e innocui. Nonna Chameli non spiccica una parola, se ne sta seduta a sorridere con il catetere che sbuca fuori dalla sottana, mentre tutte le nipotine si premurano nel riempirla di carezze e attenzioni. È un quadretto familiare d'altri tempi, di una semplicità e dolcezza infinita: i pregiudizi ci fanno cercare la malizia anche dove non c'è. Per oggi vogliamo lasciare da parte le discriminazioni, la prostituzione cui tante hijra sono costrette da una modernità che non riconosce più il loro ruolo sacro, la malattia, il disagio di una condizione marginale. Quello che abbiamo davanti agli occhi, mentre ci offrono da bere e riguardano le foto che scattiamo con loro, sono figure gioviali e rispettate, allegre e volenterose. Protettive e smaliziate, generose e caciarone.
Come tutte le vecchie zie insomma.
Le zie di Bahuchara Mata.
© Alessandro Battistini / Federico Vagliati